giovedì 26 agosto 2021

Enrico Trivelli conte del Vasto. "Un poeta al patibolo."

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Un poeta al patibolo

 
di Gianni Oliva
 
(Tratto dal volume: LE FRONTIERE INVISIBILI - Cultura e letteratura in Abruzzo - pp. 87-108,  Bulzoni Editore - 1982".

 
Scrivendo il 23 novembre 1774 al fratello Pie­tro, Alessandro Verri, tra un cenno e l’altro alle sue non floride condizioni economiche del momen­to, richiamava l'attenzione sugli ambienti pontifici e sul dramma del conclave, alludendo inoltre alla Roma dei foglietti volanti e allo smacco subìto dai poeti satirici avversi alla politica papale. E tra gli avvenimenti del genere occorsi negli ultimi settan­t'anni del XVIII sec. annoverava in particolare la decapitazione di due di essi: «Bisogna ricordarsi ancora che due satirici in questa città ed in questo secolo hanno perduto la testa su di un palco. Uno è il conte Trivelli, l’altro un abate di cui non mi ricordo il nome; ma sono fatti sicuri e da medi­tarsi» (1).

Se il vuoto di memoria del Verri lascia campo ad ipotesi sull’identità dell’anonimo abate (2), si può prendere con certezza atto dell’altro malcapitato, il conte Trivelli, il cui nome resta ben impresso allo scrivente, probabilmente perché la sua triste vicen­da dovette suscitare a suo tempo una certa impres­sione ed avere un’eco prolungata nella coscienza dei romani e dei visitatori della città. Ci si sarebbe aspettato però che i curatori del VII volume del­l'epistolario verriano fossero venuti in soccorso del lettore con notizie e riferimenti intorno alla per­sona del conte, mentre sia il primo che il secondo dei due condannati al patibolo sono lasciati senza ulteriori chiarimenti.

Per venire a capo della cosa occorre frugare nelle cronache dell'epoca, tra le quali una in ispecie, quella del Padre Ghezzi, è prolifica di partico­lari intorno al Trivelli e al suo misfatto, informan­do altresì sugli ultimi giorni del condannato e sul­la cerimonia della decapitazione, avvenuta precisamente il 23 febbraio 1737 di Carnevale (3). Ugual­mente il suo nome echeggia nelle Annotazioni di Mastro Titta, ove si legge la sua sentenza di morte vergata in latino giuridico-macheronico: «Erricum Trivelli Neapolitanum Reum conventum, Inquisitum et Processatum, et respective sponte confessum de compositione scripturarum maledicarum et seditiosarum et prout latius in processu causae et causarum super huiusmodi delieto, seu delictis fabricato [...] et pro condemnato haberi volumus et mandamus in poenam ultimi supplicii amputationis capitali» (4).

Allargando le ricerche fino ai giorni nostri non è escluso poter riconoscere la sua figura nel perso­naggio di un racconto d'una scrittrice rosa, la qua­le intreccia liberamente, con sbrigliata fantasia, una storia d’amore tra l’incipriato cicisbeo e la fida Clarice, amica del Cardinal Corsini (5); storia appas­sionata d’un tradimento che costò la testa al po­vero conte e che, irritante e stucchevole nella co­struzione, suggerisce presto il ritorno a documenti attendibili.

Di una qualche importanza tra questi, per scio­gliere una buona volta l’identità del Trivelli e per delinearne le origini familiari, è la storia della sua città di provenienza, un piccolo centro del Regno di Napoli, ov’egli aveva ricevuto la sua prima for­mazione culturale. Il Marchesani, autore appunto di un’organica Storia di Vasto (6), frutto non indegno della storiografia romantica, ne poneva la data di nascita nel 1705; ma il « probabilmente » che la precede lascia supporre incertezza e un’approssi­mazione conquistata a lume di naso. Dagli atti del­la Relazione del processo, infatti, risulta il 1709 (7), mentre il luogo di nascita è Napoli e non Vasto. Il che spiega l'equivoco in cui era caduto il Marche­sani, perplesso forse di non averne trovato registra­to l'atto nei registri parrocchiali vastesi.

In ogni modo, sia per ceppo sia per educazio­ne, il Trivelli può dirsi di Vasto, essendo la nascita a Napoli avvenuta casualmente durante un soggior­no temporaneo dei genitori nella capitale del Re­gno, i quali — spiega ancora la Relazione — «si trovavano accasati in Napoli fuggitivi dalla loro patria, per esimersi da ulteriori vessazioni» (8).

Per quanto riguarda la sua famiglia, di cui Erri­co era unico erede maschio, il Marchesani accenna concisamente alle tristi vicissitudini che «in men che mezzo secol » la portarono dall'alto a preci­pitare rovinosamente (9). Di Vasto erano i genitori di Errico, il conte Giuseppe Trivelli e Leonilda Leo­ne, devoti fedeli di Cesare Michelangelo D’Avalos, marchese del Vasto. Il capostipite della casata era comunque Luzio Trivelli, che con i suoi figli fu in onore presso la corte di Vienna, da cui ricevette nel 1707 il titolo di conte.

Nella cittadina di provincia il rampollo dei con­ti Trivelli attese dunque ai suoi primi studi sotto la guida del padre precettore Alessandro Pompeo Berti dei Clerici Regolari della Madre di Dio (10), ma soprattutto ebbe su di lui influenza lo zio Fran­cesco, il quale lasciò scritto per Errico un Testa­mento politico ovvero Avvertimenti al Conte Errico Trivelli. E fu certo lo zio Francesco, morto nel 1729, ad inculcargli il primo amore per le lettere, mentre a dargli già l'esempio in quel campo fu un altro fratello del padre, Tommaso, figura di stu­dioso, «letterato chiarissimo», che si vuole autore di tragedie, di una Critica alle Istorie del Guicciar­dini, oltreché di Trattenimenti sulle Confessioni di S. Agostino (11).

Dopo i primi studi in patria, Errico si stabilì, com’era fin d’allora di prammatica, a Napoli per quelli superiori, cui attese sotto la guida di Matteo Egizzio per il diritto e la filosofia e di Paolo Doria per le matematiche. Al 1730 risale la stesura della sua prima prova letteraria, un componimento in onore di Clemente XII, stampato nel 1732 (12). Nell'opuscoletto sono anche annunziati un Canzoniere e alcuni Discorsi intorno all'Arte poetica che non vennero mai alla luce. Nello stesso anno 1732 si data anche un bizzarro manualetto di retorica dal titolo Lettera filologica dedicata a Francesco Carafa principe di Colobrano, in cui la paludata dot­trina era profusa a piene mani e spesso si mischia­va ad oscure e sagaci allusioni a nobili personalità del tempo, indizio sicuro della vena sfoderata più tardi dal poeta satirico. Sempre al 1732 risale un’ode in diciotto ottave recitata in Campidoglio in occasione del concorso dell'Accademia del di­segno (13). Questi versi, stesi in uno stanco fraseggio arcadico e appesantiti da riferimenti mitologici, si possono segnalare per le frequenti lodi a Clemente XII, papa Corsini, lo stesso che ne permetterà più tardi la decapitazione. Quasi contemporaneamente l'Arcadia lo affiliava col nome di Idasio Nivalgo (14). Versi del Trivelli apparvero postumi raccolti nella Giacinteide, un volumetto miscellaneo contenente poesie di letterati vastesi per le nozze di Giacinta Leone, nipote di Errico (15).
(Archivio Storico Comunale "Casa Rossetti" - Vasto)

Insistendo ancora sul versante biografico, vien fatto di domandarsi quali fossero i motivi che spin­sero il Trivelli a lasciare il Regno di Napoli ed a recarsi a Roma. Stando alla cronaca del Ghezzi, correva intorno al suo nome la diceria ch’egli si fosse macchiato d'un orrendo delitto ai danni d’un incauto corteggiatore della sorella Elisabetta, sic­ché fu costretto a fuggire. Ma di tale fattaccio com­piuto a Vasto (senza dubbio prima del 1730, giac­ché in quella data il Marchesani lo vuole già a Ro­ma) è possibile che non rimanga alcuna traccia nelle cronache vastesi, neppure in quella tanto ac­corta del Maciano, che pur giunge dettagliatamen­te fino al 1729? (16) Eppure dovette trattarsi di avve­nimento di grande risonanza per una sonnacchio­sa cittadina di provincia! Stando così le cose, si è più propensi a credere che l’accusa fosse stata sa­pientemente ordita contro di lui dal cronista pa­palino per gettar cattiva luce sulla sua figura di poeta satirico dal passato oscuro. Di recente anche le ricerche di un altro storico locale, il Benedetti, portavano implicitamente a questa conclusione, giacché la sorella del Trivelli sembra che, mona­cata in Napoli a Santa Chiara, fosse stata sepolta il 12 settembre 1739 nella chiesa di S. Pietro in Vasto, ossia — cosa quasi impossibile per quei tempi — nella stessa città che un dì «sparlò di lei» (17). È più probabile quindi che l’approdo a Ro­ma si giustifichi per ragioni diverse da quelle del riparo a causa di conti sospesi con la giustizia e che sia stato dovuto a ragioni più inerenti alla poe­sia, alla speranza della fama in una città per quei fini assai accogliente, ricca com'era di protettori. A conferma di ciò si possono considerare gli ap­procci — riferiti dal Benedetti — che il Trivelli tentò a Roma con il principe Visconti, viceré di Napoli, alla cui porta egli bussò ripetutamente. Ed è ovvio che se ci fossero stati precedenti delittuosi di quel genere Errico non avrebbe neppure tentato di avvicinarlo (18).
In ogni modo, nella nuova sede la vita non si presentò facile per il poeta in cerca di gloria e le restrizioni economiche cominciarono a farsi più anguste del previsto: la catena dei prestiti dovette allungarsi e il Trivelli essere presto additato come mal pagatore e, di conseguenza, evitato. La situa­zione precipitava, né presentava vie d'uscita. Tor­nare a Vasto o restare ad ogni costo a Roma erano le due uniche possibilità che gli si presentavano.
La prima, però, ammesso che il Trivelli non fosse ricercato per omicidio, non sarebbe stata soluzio­ne dignitosa per un letterato ambizioso; la secon­da, invece, era forse l'unica scappatoia da prendere in considerazione, anche a costo di dedicarsi a la­vori umili, purché gli permettessero di sopravvi­vere.
È in questa prospettiva che ci si può spiegare quanto provvidenziale sia giunto l’impiego di co­pista nella bottega di Martorello e Martino Domi­nici in campo Marzio, anche se, per altri motivi, quel lavoro costituì in seguito il più consistente capo d’accusa dei misfatti antipapali di cui il Tri­velli fu imputato.
Nella primavera del 1736, com’è noto, la Spagna intraprese a Roma reclutamenti forzati tra il po­polo, facendo uso all’occorrenza anche di travesti­menti e di allettevoli meretrici, le quali avevano il compito di attirare gli ignari cittadini e consegnarli alle autorità competenti, dopodiché gli involontari coscritti venivano imbarcati a Ripa Grande (19). La cosa non poteva durare a lungo, tant’è vero che il popolo, stanco dei soprusi, organizzava il 23 mar­zo un violento tumulto, durante il quale vennero liberati i prigionieri. E tutto ciò all’ombra del si­lenzio accondiscendente di Clemente XII. Gli Spa­gnoli dal canto loro, reagivano energicamente chie­dendo al Papa la consegna dei capipopolo, pena la rottura dei rapporti diplomatici con la Santa Sede. A questo punto appariva chiaro che il prezzo ri­chiesto al Papa era troppo alto perché Clemente non tornasse indietro: la pace con la Spagna da un lato, il malcontento del popolo dall'altro, non reggevano a confronto e il pontefice non ebbe dub­bi. Ma contro la debolezza del governo pontificio si scatenò un gioco sotterraneo di proteste, Pasqui­no si risvegliò scagliando pungenti frecciate, i co­pisti insomma lavorano a pieno ritmo. Al coro di disapprovazioni espresse in versi il Trivelli dovette senza dubbio partecipare ampiamente col proprio lavoro e non solo con esso: egli, sua sponte, non ebbe indugi a far appello alla propria natural vena satirica e contribuire in prima persona alla lotta contro la decisione papale, nulla impedendolo, nep­pure le lodi già profuse a Clemente dal Campido­glio nell’ode del 1732. Sue vittime furono, oltre il Papa in persona, il cardinale Guadagni e il Corsini, nipote di Clemente XII.
(Ritratto di Papa Clemente XII)

La Santa Sede riconobbe nei numerosi e anoni­mi foglietti volanti diffusi in Roma un comporta­mento irriverente e una minaccia gravissima alla propria dignità, ordinando che fossero trovati i colpevoli. A occuparsene è il Governatore di Roma, che affida l’incarico al Bargello, in quel caso da identificare nel capitano Giuseppe Maria Scaiola da Monferrato. Questi, amico dei Dominici, presso cui il Trivelli lavorava, indaga e fa indagare nell'ambiente dei copisti, in modo che, di lì a qual­che tempo, non fu difficile giungere al conte scri­vano abruzzese.
Nella Relazione pubblicata dall'Ademollo può leggersi dettagliatamente la cronistoria della cat­tura e degli interrogatori subiti dal poeta, assieme al sacerdote Don Gio. Battista Jacoponi, altro ac­cusato: lunghissime ore di stressanti domande e, infine, il processo, durante il quale il Trivelli non dovette riuscire brillante difensore di se stesso. Gli furono addebitati versi appunto contro i cardinali Guadagni e Corsini, una satira contro arruolamenti abusivi e, in più, un voluminoso scar­tafaccio indirizzato al Re di Napoli per convincerlo a non far pace con lo Stato pontificio.
Molte altre testimonianze furono addotte a suo carico e come tali registrate negli atti del proces­so: si richiama la sua buona educazione letteraria «a cui ha atteso nello spazio di molti anni sotto insigni maestri, sì nella città del Vasto, che in quel­la di Napoli, che ancora dall’aver dato alle stampe alcune composizioni in Roma et aver fatto nota in Roma fra gli Arcadi la sua capacità con un’ode in onore dell'esaltazione al trono del Regnante Pon­tefice come confessa» (20). Del resto lo Jacoponi as­serì «avere il Trivelli tal facilità di comporre, che è capace di comporre e scrivere nello stesso tempo molti fogli senza farvi una cassatura e senza farci copiaccia» (21); dal canto suo il Dominici testimo­niò sulle qualità poetiche del collaboratore, assi­curando di averlo visto far versi con scioltezza e senza ripensamento alcuno. In conclusione, il con­te vastese fu senza indugi riconosciuto « reo » e responsabile principale delle pasquinate e condan­nato alla decapitazione.
Inizia così per Errico Trivelli la lunga attesa del giorno dell’esecuzione, attesa straziante, che il poeta cercò di ingannare facendo — come si suol dire — buon viso a cattivo gioco. Durante le ore in cella più volte egli trovò lo spirito di stendere e condurre a termine un succoso e strambo testa­mento poetico, che resta a documento del suo mai sopito ingegno.
(Il frontespizio del testamento di Enrico Trivelli -
Archivio Storico Comunale "Casa Rossetti" - Vasto)
Ancora il benemerito Ghezzi, in pagine docu­mentatissime, ci dà modo di seguire passo passo i­ tormenti del condannato dando notizia del fiero comportamento tenuto dal conte ventisettenne il giorno dell'esecuzione e persino c’informa sulle fat­tezze dell’abito, volutamente elegante, di «panno negro [ ... ]. Volle ancora le fibbie d’argento che portava alle scarpe quando fu scarcerato [...] e si ripulì tutto» (22). Mise, inoltre, al collo un fazzoletto di seta e in testa un tricorno con pennacchio bian­co e rosso, i colori della sua città. Dal Ghezzi, de­cisamente dalla parte delle autorità pontificie, è de­plorato poi quel suo chieder da scrivere poche ore prima di morire, «nulla pensando alla maggiore importanza della sua anima», anche se non può fare a meno di raccontare che sul patibolo, prima d’essere bendato e legato, il Trivelli recitò il Credo: «si trattenne così in ginocchio un buon mezzo quarto d’ora e parea non sapesse alzarsi in piedi, e salire nel palco, ma inanimito dai Confortatori, e forte gridando Viva Gesù Viva Maria salì con pre­stezza gli scalini del palco, e condotto al ceppo del­la mannaia, presto che fu a cavallo al medesimo, prima di colearsi, domandò del Padre Santi Canale, che era ivi vicino, e dicendogli che non si scordasse di lui, e che lo raccomandasse a Dio, fece nuova­mente atto di contrizione domandando ad alta voce perdono di tutti li suoi peccati, e specialmente di molti errori di mente che aveva avuti e ringra­ziando il Signore che l'aveva fatto nascere e morire nel grembo di Santa Chiesa Cattolica, spontanea­mente si colcò sotto la mannaia, e gli recise subito la testa e questa mostrata al popolo che in incre­dibile quantità si era adunato in detta piazza» (23). 

(Mastro Titta)

Alle ore diciassette la sua testa era esposta sul palco, mentre il popolo si mostrava impaziente d’in­cominciare le feste di Carnevale.
Infine il Ghezzi, concludendo il resoconto del­l’esecuzione, entra in prima persona a commentare l’epilogo della drammatica vicenda: « Dio voglia però che una tale intrepidezza provenisse da una vera contrizione de’ suoi peccati e ferma speranza che aveva nella somma misericordia d’Iddio, e non fusse originata dall'eroismo che sera in mente pre­fisso. Certo che, se si riguardano la composizione e proteste da lui dettate in Confortaria, purtroppo a chi ponderatamente le considera, si manifesta il fino veleno, che in esse si cela, e si scorgono sen­timenti non adatti ad uno che è prossimo a com­parire al tremendo giudizio dell’infallibile e Som­mo Giudice; se poi si esaminano gli atti posteriori dal medesimo fatti, dobbiamo sperare che pentito dei passati errori col mezzo di una così infame morte abbia fatto acquisto dell’eterna, ed immor­tale vita » (24).
Tra i manoscritti della Biblioteca Comunale « G. Rossetti » di Vasto si conservano alcuni auto­grafi del poeta decapitato. Questi, come si appren­de da notizia seriore, probabilmente del Marche­sani, apposta nel voi. IV, c. 156 dei Documenti pa­trii, furono portati da Roma (ove giacevano nell'archivio della Confraternita di S. Giovanni Decol­lato) a Vasto da Giuseppe De Litiis, medico a Roma fino al 1805. Passati a Francesco Romani, medico e poeta della stessa città, furono lasciati in eredità da quest’ultimo alla suddetta biblioteca, ove furo­no allegati dal Marchesani ai documenti riguardan­ti la storia della città.
Il materiale relativo al Trivelli comprende l'ode recitata in Campidoglio (D.P., voi. II, cc. 261-265) (25), una Protesta (26) (D.P., vol. II, cc. 251-252) scritta il 22 febbraio 1737, in cui il poeta si proclama cri­stiano e innocente. Seguono un’ode supplica a Cle­mente XII (27) e alcuni inediti, differenti dalle com­posizioni poetiche precedenti per stile e intenzioni. Questi ultimi facevano, con tutta probabilità, parte del materiale incriminato che costò la vita al Trivelli. Si tratta di sette sonetti (D.P., vol. II, cc. 160- 64) e di un Testamento in versi (D.P., vol. II, cc. 150-164).
 
Tra i sonetti trascegliamo il V, che risale al periodo in cui l’autore era indiziato e ricercato: esso porta i segni dello stato d’animo del Trivelli, vittima di incubi notturni, della paura attanaglian­te di cadere in mano agli sbirri («tanta canaglia/di sbirri e spie per acquistar la taglia», dirà anche nel IV sonetto).

Inoltre, diamo il testo integrale del Testamento, e segno evidente della scanzonata e popolaresca (e non sempre corretta) vena poetica del conte di Vasto, il quale dai paludamenti arcadici delle odi ufficiali sapeva scendere al ritmo della poesia im­provvisata, fresca e spontanea, efficace e sferzante. I componimenti ben s’inseriscono nel filone della vasta rimeria arcadica d'estrazione bernesca così diffusa nel Settecento, ma qui il gioco nascon­de un dramma autobiografico autentico che il divertissement non riesce del tutto ad eclissare.

Nella trascrizione ci siamo attenuti agli autogra­fi intervenendo qua e là per riportare il testo alla leggibilità, sia perché talvolta priva di punteggia­tura, sia perché il suo uso alterava il senso corren­te. Si sono poi eliminate le maiuscole superflue (Notar, Scritto, Anima, ecc.), conservando quelle in principio di verso e le opportune; ugualmente sono caduti taluni accenti soverchi (es. fù, sò).

Qualche strofa del Testamento fu pubblicata dall’Anelli (vv. 1-8; 25-40; 137-148; 181-184) in una sua storia (28) (poco più che una guida turistica) della città di Vasto, ma non sempre correttamente. Tal­volta, anzi, l'illegibilità di una parola induceva l'Anelli ad effettuare addirittura arbitrarie mani­polazioni di versi. Se ne darà conto in nota.

[Gli sbirri]



In sogno questa notte mi pareva
d’andar in ciel con il corpo umano e
Pietro mi pigliasse per la mano
ma poi m’accorsi, che tra sé rideva.

Vieni meco poeta mi diceva;                                  5
vado, e mi pone a canto a S. Sebastiano
che il medaglion dal collo gli pendeva
per che era stato Barigel romano.

Io, che gli sbirri ho sempre odiato a morte 
al prince degli Apostoli mi voltai                        10
con dir se appresso gli venia la corte.

Mi risponde sì. 
Tosto — gridai — 
serra per carità Pietro le porte, 
e dicendo così mi risvegliai.


Testamento



Poiché il mio caso è disperato affatto 
Benché reo non sono io d'alcun delitto 
Or voglio far un testamento esatto 
Senza notar, per non pagar lo scritto:

L’anima in primis raccomando a Dio                   5 
E lasso il corpo alla gran madre antica, 
A chi pormi nell’urna avrà fatica
Lasso le scarpe ed il cappello mio.

Dopo lasso al dotto mio barbiere
Una grand’antichità fatta di stucco                    10
Che servir si potrà per candegliere
Un piede del colosso di Nabucco.

Due materassi ancor ben trapuntati
Che dentro vi è di buona lana invece
Tutte le barbe, che recider fece                          15
Il macedon invitto a suoi soldati.

Gli lascio berrettini trentasei
Ma vedrà che bella tela è questa
S’è quella instessa che portava in testa
Attila detto (il) flagellum Dei.                            20

Item lasso alli parenti mei.
Però quelli più prossimi e vicini, 
In vece di testoni e di zecchini, 
Le corna del vitello degl'Ebrei.

Item lascio il pugnale al mio tutore,                   25
Che lo difenderà nell'ore fosche,
E con questo solea ammazzar le mosche 
Cesare Domiziano imperatore.

Gli lascio un ferraiuol di panno nero,
Che mandato mi fu dall’Inghilterra;                   30
Che se la mente mia forse non era
Credo che fosse di Martin Lutero.

Due braciole di più cotte e salate
Gli do con sette libbre di lombetto
E gli so dir che son di quel porchetto                 35
Che andava appresso a S. Antonio Abate.

Gli lascio di prosciutti piena l’arca
Che dentro il greco furon cotti alesso
E gli giuro che son de' porci stessi
Che guardò Sisto quinto nella Marca.                40

Altra cosa avrà più vaga e linda
Qual prego sempre che la porti in dono 
Mentre li attesto che è quell'elmo stesso 
Col qual Tancredi battezzò Clorinda.

Lascio alla serva mia di gioie ignuda                 45 
Un prezioso e gratissimo diamante 
Che incostrato trovai sopra il turbante 
Del gran visir che fu strozzato a Buda.

Gli lascio un busto d’ossa di balena
Quella che voimitò vivo in persona                   50
Quell'amico del ciel profeta Giona
A Ninive colà sopra l’arena.

Lascio al mio servitor nomato Andrea
Uno spiedo che è tutto arrugginito 
Coll'autentico poi sopra di Tito                         55
Che il figlio v’arrostì la madre ebrea.

Per quando va a spasso con leggiadria
Lo so che gli sarà d’utile e grato
Gli lascio il bastoncel che fu tagliato 
Nella selva che fe’ Pietro messia.                      60

Lascio al mio camerier nomato Marco
Il funesto di porfido mortaro 
Dove pestato fu senza riguaro 
L'eccellente filosofo Anasarco.

Una coltella poderosa e invitta                           65
Colla quale farà opere eterne
Se con questa la vedova Giuditta 
Sotto Betulia v'ammazzò Oloferne.

Acciò che possa un dì pranzar contento
E possa far a molti amici un pasto                     70 
Gli lascio per frittura et antipasto
Il fegato del toro d'Agrigento.

E acciò che li risposi la mattina
Io gli voglio lasciare un letticello
Che me lo regalò quel poverello                        75
Che uscì dalla [...] piscina.

Il bucefalo gli lascio d’Alessandro
E addosso portar non gli rincresce 
L’armatura gli do dossa di pesce 
Che servì per Leonilda a Colleandro.                 80

Gli dono un sacco, che vai più d’un soldo, 
Quale in Epiro me lo diede Pirro 
Con dir qui dentro ci legò lo sbirro 
Quel villan astutissimo Bertoldo.

Di lacrime gli lascio un caraffino                        85
Quali versate fur da Solimano 
Quando esangue mirò steso sul piano 
Il vaghissimo a lui caro Lesbino.

Poi gli vo’ regalar certe monete
E credo sian cento mila scudi                              90
Ma nello spaccio converrà che sudi 
Mentre che tutti son grassi del prete.

Altra cosa gli lascio eccelsa e magna
Ma la tenghi di conto, e molto caro, 
Che è la coda del celebre somaro                        95
Che a Balamme parlò su la montagna.

Gli lascio un chiodo ancor di sangue intriso, 
Chiodo atrocissimo e crudele, 
Con il quale dall’intrepida
Sisara il capitan fu un giorno ucciso.                100

Gli lascio un par di tinche fresche e crude 
Quali pescate fur da Paifasse 
Senz'ami, senza reti e senza nasse 
Dentro delle Metoide paludi.

Se di portarlo via non avrà noia                        105
Gli lascio un scorzo e mezzo di carbone 
Che parte è dell’incendio di Nerone.
L’altro lo conservai quand’arse Troia.

Ad una amica mia detta Gertrude
Gli lascio fichi secchi un par di serte               110 
Quali furon colti da più mani esperte 
Nell’albor proprio ove appiccossi Giuda.

Un canestro gli do colmo di mele 
Con il quale Bacucco e suoi garzoni 
Portava il pane e si saziò Daniele                     115
Quando stava nel lago de’ leoni.

Gli lascio quel medesimo cestino
Che la figlia trovò di faraone 
Trasportato dal mar sopra il sabbione 
Dove stava Mosé nudo bambino.                     120

Gli lascio ancor, ma non la presti a niuno, 
Una forcina [per] la sua posata 
Per mangiar maccheroni et insalata 
Ed è il tridente del gran dio Nettuno.

Lascio al cuoco un famoso parruccone             125 
Di tessuti capelli in belle guise 
E son quelli che Dalila recise
Al nerboruto e forte ebreo Sansone.

Lascio al padre curato di Sant’Ivo
La tabacchiera mia d'acqua di mare,                 130 
Gli lascio ancor per adornar l’altare 
Un par di candeglie d’argento vivo.­

Per non aver da un mio fratel richiamo
Gli lascio un nobilissimo mantello
E gli posso attestar che proprio è quello           135
Che addosso avea pria che peccasse Adamo.

Io lascio d’oro ad una mia cognata
Un crocifisso che sicura stia
Che è quello [a cui] soleva orar Maria
Pria che fosse dall'angiolo annunziata.             140

Item lascio ad un'amica un gallo
Ma non lo mangi e l’abbia in devozione 
Qual di Cristo cantò nella passione 
Dopo che Pietro ebbe commess’il fallo.

Lascio di San Giovanni al parrocchiano          145
cosa che diemmi di Porsenna il cuoco, 
Che arrostita trovò cotta sul fuoco 
Ed è di Muzzio Scevola la mano.

Lascio al padre prior della zitella, 
Di questo santo e venerando Apicio               150 
Del gran Giuliano Apostata il cilicio, 
Un sasso della torre di Babelle

Voglio lasciare a Don Bartolommeo,
Quel degno prete della scala santa, 
la testa, e l’abbia in devozione tanta,              155 
Che fu recisa al general Pompeo.

Lascio una pizza in mano della corte
Che fu impostata con quel poco miele 
Con il quale il tiranno empio e crudele 
Saulle condannò Gionata a morte.                  160

Lascio a mio zio, qual d’Agostino è frate, 
L'anello d'oro di liquore pieno 
Ed è quel potentissimo veleno 
Che un dì tolse la vita a Mitridate.

Item d'argento quella tazza istessa                 165
Qual da Giuseppe ebreo di propria mano 
Dentro del sacco a Begnamin fu messa 
Mentre in Egitto gli vendeva il grano.

Item una metà di quel cervello
Che non so se di lepre o ver di gatto             170 
Qual fu dato a mangiar dentro del piatto 
In Napoli al famoso Masaniello.

Al capitolo mio di San Giovanni
Per ricompensa del ricetto dato
Tutto il tempo che fu qui ritirato                   175
Gli lascio il tesor del prete Janni.

Lascio infine al degnissimo Cerrotti
Quale di vero cuor venero et amo 
Tutto il bene che Dio diede ad Abramo 
per sé, pe' suoi figliuoli e suoi quasi nipoti. 180

E lascio esecutor testamentario,
Acciò pronto eseguir prenda la cura 
E ritrovar il corpo in grembo alla natura, 
Quel che fu l’inventor del calendario.
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v. 6 lasso [lascio ANELLI
v. 7 A chi [E a chi ANELLI
v. 8 Lasso [Lascio ANELLI
v. 31 Che se [E se ANELLI
v. 33 di più [dippiù ANELLI
v. 36 S. Antonio [Sant'Antonio ANELLI
v. 39 de' [dei ANELLI
v. 139 a cui è correzione accolta dall'Anelli, ma questa volta necessaria. il ms. aveva al quale, lezione che rendeva il verso dodecasillabo.
v. 140 angiolo [Angelo ANELLI
v. 141 Item lascio [Elascio pure ANELLI
v. 143 Qual [Quel ANELLI
v. 144 commess'il [Commesso il ANELLI
vv. 182-183 Acciò... / ... natura [Perché di ritrovar abbia la cura / il corpo mio in grembo alla natura ANELLI
v. 184 Quel [Quei ANELLI

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Note:

(1) Carteggio di Pietro e Alessandro Verri (dal 1774 al 1775), vol. VII a cura di E. CHEPPÌ e A. GIULINI, Milano, Cogliati, 1931, p. 72.

(2) Si potrebbero con tutta probabilità fare i nomi del­l’abate Rivarola, giustiziato il 4 agosto 1708, nonché del­l'abate Volpini, messo a morte il 3 febbraio 1720. L ucci­sione del Rivarola destò però più scalpore sia. per la sin­golarità della figura, sia per essere stato trascinato al pa­tibolo già quasi morto. Cfr. A. Ademollo, Le giustizie a Roma, Roma, Forzani e C., 1882, pp. 125-133.

(3) P. E. Ghezzi, Relazione del processo e morte del conte Enrico Trivelli, in A. Ademollo, op. cit., pp. 133-145. 
(4) Le annotazioni di Mastro Titta carnefice romano, a cura di A. ADEMOLLO, Città di Castello, Lapi, 1886. La citazione è però effettuata dalla rist. anast., Bologna, Ferni, 1966 , pp. 88-89.

(5) M. PERICCIOLI, Vite amorose nella storia e nella leg­genda, Roma, Casa del Libro, 1934, pp. 7-18.

(6) L. MARCHESANI, Storia di Vasto, città in Abruzzo cite­riore, Napoli, Osservatore medico, 1838. Per questo vol., praticamente irreperibile (manca persino nella Biblioteca Com. di Vasto), si può usufruire ora d'una ristampa vo­luta dal Comune di Vasto: Pescara, Arte della stampa, 1966. Quest’ultima è corredata da una pref. di M. SACCHETTI e da una biografia del Marchesani di G. TOMMASI, la quale riproduce alcune parti di un opuscolo edito a Napoli nel 1879. La mancanza di indici d’ogni specie, co­munque, e lo stile ridondante del Marchesani rendono an­che questa ristampa di difficile consultazione e lettura. In ogni modo da essa citiamo.

(7) Cfr. A. ADEMOLLO, Le giustizie a Roma, cit., p. 133.

(8) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 132.
(9) L. Marchesani, op. cit., p. 332.

(10) La precisazione si deve a L. ANELLI, Histonium ed il Vasto attraverso i secoli, Vasto, Guzzetti, 1929, p. 48.

(11) Cfr. L. MARCHESANI op. cit., p. 332.

(12) Canzone del Conte Trivelli per l'esaltazione di Nò. Papa Clemente XII dedicata al Cardinale Alvaro Cienfuegos, Firenze, 1732.

(13) Vedila ora riprodotta, in L. Benedetti Tre istoniesi a Roma, Roma, Quaderni dell’Alma Roma, 1962, pp. 29-34.

(14) La notizia è confermata anche dall’ode del 1732 reci­tata in Campidoglio: « Colà fra le dolcissime sirene / Sol tra larmi e i guerrier raccolsi il canto / E IDASIO udimmi, IDASIO che sostiene / D’esse l’onore con Nivalgo, e vanto / N'ebber le mie Camene ». In L. BENEDETTI, op. cit., p. 29.

(15) AA. VV., La Giacinteide. Alla nobile sposa D. Giacinta Leone, Napoli, 1779.

(16) D. MACIANO, Notizie patrie (1700-1720), ms. autografo nella Biblioteca Com. di Vasto. Il frontespizio porta il seguente titolo: Libretto di molte belle cosette e molte cose a leggerle principato nell'anno 1700 fatto da me C.co Diego Maciano del Vasto, per mia felice memoria, senza fraudità, nè passione alcuna di tutto ciò, che si parla in questo volume.

(17) L. BENEDETTI, op. cit., p. 35. Altri due studiosi locali si sono occupati di Trivelli con interventi generici: E. FERRARA, in "Histonium", (Vasto), a. II, n. 1, 15 settembre 1948; V. D'ANELLI, Histonium ed Il Vasto, Arte della stampa, 1977, pp. 70-72.

(18) L. BENEDETTI, op. cit., p. 36.

(19) Cfr. L. VAN PASTOR, Storia dei Papi, vol. XV, Roma, Desclée e C. editori pontifici, 1962, p. 695.

(20) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 138.

(21) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 138.

(22) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 142-143.

(23) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 144.

(24) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 145.

(25) L'ode non è autografa. Si legge infatti alla c. 260 dei D.P., vol. II « La seguente Ode è stata ricopiata in Vasto nel 1867mpresso una raccolta ms. di Poesie, che si dicevano composte dal Medico D. Giuseppe de Litiis. La Raccolta in volumetto in 8° di carte 64 si possedeva da D. Giuseppe Celano, ma presentemente è presso D. Filoteo Palmieri [...] ».

(26) Pubblicata da L. BENEDETTI, op. cit., p. 53-54.

(27) L'ode-supplica, vano appello alla clemenza di Clemente (ironia del nome!), fu pubblicata da A. ADEMOLLO, op. cit., pp. 94-99. La riproduce anche L. BENEDETTI, op. cit., pp. 54-63, con più precisa trascrizione. 

(28) L. ANELLI, op. cit., pp. 48-49.


 

 


Enrico Trivelli conte del Vasto. "Un poeta al patibolo."

                                                                Un poeta al patibolo   di Gianni Oliva   (Tratto dal volume: LE FRONTIERE IN...