Un poeta al patibolo
di Gianni Oliva
(Tratto dal volume: LE FRONTIERE INVISIBILI - Cultura e letteratura in Abruzzo - pp. 87-108, Bulzoni Editore - 1982".
Scrivendo il 23 novembre 1774 al fratello Pietro, Alessandro Verri, tra un cenno e l’altro alle sue non floride condizioni economiche del momento, richiamava l'attenzione sugli ambienti pontifici e sul dramma del conclave, alludendo inoltre alla Roma dei foglietti volanti e allo smacco subìto dai poeti satirici avversi alla politica papale. E tra gli avvenimenti del genere occorsi negli ultimi settant'anni del XVIII sec. annoverava in particolare la decapitazione di due di essi: «Bisogna ricordarsi ancora che due satirici in questa città ed in questo secolo hanno perduto la testa su di un palco. Uno è il conte Trivelli, l’altro un abate di cui non mi ricordo il nome; ma sono fatti sicuri e da meditarsi» (1).
Se il vuoto di memoria del Verri lascia campo ad ipotesi sull’identità dell’anonimo abate (2), si può prendere con certezza atto dell’altro malcapitato, il conte Trivelli, il cui nome resta ben impresso allo scrivente, probabilmente perché la sua triste vicenda dovette suscitare a suo tempo una certa impressione ed avere un’eco prolungata nella coscienza dei romani e dei visitatori della città. Ci si sarebbe aspettato però che i curatori del VII volume dell'epistolario verriano fossero venuti in soccorso del lettore con notizie e riferimenti intorno alla persona del conte, mentre sia il primo che il secondo dei due condannati al patibolo sono lasciati senza ulteriori chiarimenti.
Per venire a capo della cosa occorre frugare nelle cronache dell'epoca, tra le quali una in ispecie, quella del Padre Ghezzi, è prolifica di particolari intorno al Trivelli e al suo misfatto, informando altresì sugli ultimi giorni del condannato e sulla cerimonia della decapitazione, avvenuta precisamente il 23 febbraio 1737 di Carnevale (3). Ugualmente il suo nome echeggia nelle Annotazioni di Mastro Titta, ove si legge la sua sentenza di morte vergata in latino giuridico-macheronico: «Erricum Trivelli Neapolitanum Reum conventum, Inquisitum et Processatum, et respective sponte confessum de compositione scripturarum maledicarum et seditiosarum et prout latius in processu causae et causarum super huiusmodi delieto, seu delictis fabricato [...] et pro condemnato haberi volumus et mandamus in poenam ultimi supplicii amputationis capitali» (4).
Allargando le ricerche fino ai giorni nostri non è escluso poter riconoscere la sua figura nel personaggio di un racconto d'una scrittrice rosa, la quale intreccia liberamente, con sbrigliata fantasia, una storia d’amore tra l’incipriato cicisbeo e la fida Clarice, amica del Cardinal Corsini (5); storia appassionata d’un tradimento che costò la testa al povero conte e che, irritante e stucchevole nella costruzione, suggerisce presto il ritorno a documenti attendibili.
Di una qualche importanza tra questi, per sciogliere una buona volta l’identità del Trivelli e per delinearne le origini familiari, è la storia della sua città di provenienza, un piccolo centro del Regno di Napoli, ov’egli aveva ricevuto la sua prima formazione culturale. Il Marchesani, autore appunto di un’organica Storia di Vasto (6), frutto non indegno della storiografia romantica, ne poneva la data di nascita nel 1705; ma il « probabilmente » che la precede lascia supporre incertezza e un’approssimazione conquistata a lume di naso. Dagli atti della Relazione del processo, infatti, risulta il 1709 (7), mentre il luogo di nascita è Napoli e non Vasto. Il che spiega l'equivoco in cui era caduto il Marchesani, perplesso forse di non averne trovato registrato l'atto nei registri parrocchiali vastesi.
In ogni modo, sia per ceppo sia per educazione, il Trivelli può dirsi di Vasto, essendo la nascita a Napoli avvenuta casualmente durante un soggiorno temporaneo dei genitori nella capitale del Regno, i quali — spiega ancora la Relazione — «si trovavano accasati in Napoli fuggitivi dalla loro patria, per esimersi da ulteriori vessazioni» (8).
Per quanto riguarda la sua famiglia, di cui Errico era unico erede maschio, il Marchesani accenna concisamente alle tristi vicissitudini che «in men che mezzo secol » la portarono dall'alto a precipitare rovinosamente (9). Di Vasto erano i genitori di Errico, il conte Giuseppe Trivelli e Leonilda Leone, devoti fedeli di Cesare Michelangelo D’Avalos, marchese del Vasto. Il capostipite della casata era comunque Luzio Trivelli, che con i suoi figli fu in onore presso la corte di Vienna, da cui ricevette nel 1707 il titolo di conte.
Nella cittadina di provincia il rampollo dei conti Trivelli attese dunque ai suoi primi studi sotto la guida del padre precettore Alessandro Pompeo Berti dei Clerici Regolari della Madre di Dio (10), ma soprattutto ebbe su di lui influenza lo zio Francesco, il quale lasciò scritto per Errico un Testamento politico ovvero Avvertimenti al Conte Errico Trivelli. E fu certo lo zio Francesco, morto nel 1729, ad inculcargli il primo amore per le lettere, mentre a dargli già l'esempio in quel campo fu un altro
fratello del padre, Tommaso, figura di studioso, «letterato chiarissimo»,
che si vuole autore di tragedie, di una Critica alle Istorie del Guicciardini,
oltreché di Trattenimenti sulle Confessioni di S. Agostino (11).
Dopo i primi studi in
patria, Errico si stabilì, com’era fin d’allora di prammatica, a Napoli per
quelli superiori, cui attese sotto la guida di Matteo Egizzio per il diritto e
la filosofia e di Paolo Doria per le matematiche. Al 1730 risale la stesura della
sua prima prova letteraria, un componimento in onore di Clemente XII, stampato
nel 1732 (12). Nell'opuscoletto sono anche annunziati un Canzoniere e alcuni
Discorsi intorno all'Arte poetica che non vennero mai alla luce. Nello
stesso anno 1732 si data anche un bizzarro manualetto di retorica dal titolo Lettera
filologica dedicata a Francesco Carafa principe di Colobrano, in cui la
paludata dottrina era profusa a piene mani e spesso si mischiava ad oscure e
sagaci allusioni a nobili personalità del tempo, indizio sicuro della vena
sfoderata più tardi dal poeta satirico. Sempre al 1732 risale un’ode in
diciotto ottave recitata in Campidoglio in occasione del concorso
dell'Accademia del disegno (13). Questi versi, stesi in uno stanco
fraseggio arcadico e appesantiti da riferimenti mitologici, si possono
segnalare per le frequenti lodi a Clemente XII, papa Corsini, lo stesso che ne
permetterà più tardi la decapitazione. Quasi contemporaneamente l'Arcadia lo affiliava col nome di Idasio Nivalgo (14). Versi del Trivelli apparvero postumi raccolti nella Giacinteide, un volumetto miscellaneo contenente poesie di letterati vastesi per le nozze di Giacinta Leone, nipote di Errico (15).
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(Archivio Storico Comunale "Casa Rossetti" - Vasto) |
Insistendo ancora sul versante biografico, vien fatto di domandarsi quali fossero i motivi che spinsero il Trivelli a lasciare il Regno di Napoli ed a recarsi a Roma. Stando alla cronaca del Ghezzi, correva intorno al suo nome la diceria ch’egli si fosse macchiato d'un orrendo delitto ai danni d’un incauto corteggiatore della sorella Elisabetta, sicché fu costretto a fuggire. Ma di tale fattaccio compiuto a Vasto (senza dubbio prima del 1730, giacché in quella data il Marchesani lo vuole già a Roma) è possibile che non rimanga alcuna traccia nelle cronache vastesi, neppure in quella tanto accorta del Maciano, che pur giunge dettagliatamente fino al 1729? (16) Eppure dovette trattarsi di avvenimento di grande risonanza per una sonnacchiosa cittadina di provincia! Stando così le cose, si è più propensi a credere che l’accusa fosse stata sapientemente ordita contro di lui dal cronista papalino per gettar cattiva luce sulla sua figura di poeta satirico dal passato oscuro. Di recente anche le ricerche di un altro storico locale, il Benedetti, portavano implicitamente a questa conclusione, giacché la sorella del Trivelli sembra che, monacata in Napoli a Santa Chiara, fosse stata sepolta il 12 settembre 1739 nella chiesa di S. Pietro in Vasto, ossia — cosa quasi impossibile per quei tempi — nella stessa città che un dì «sparlò di lei» (17). È più probabile quindi che l’approdo a Roma si giustifichi per ragioni diverse da quelle del riparo a causa di conti sospesi con la giustizia e che sia stato dovuto a ragioni più inerenti alla poesia, alla speranza della fama in una città per quei fini assai accogliente, ricca com'era di protettori. A conferma di ciò si possono considerare gli approcci — riferiti dal Benedetti — che il Trivelli tentò a Roma con il principe Visconti, viceré di Napoli, alla cui porta egli bussò ripetutamente. Ed è ovvio che se ci fossero stati precedenti delittuosi di quel genere Errico non avrebbe neppure tentato di avvicinarlo (18).
In ogni modo, nella nuova sede la vita non si presentò facile per il poeta in cerca di gloria e le restrizioni economiche cominciarono a farsi più anguste del previsto: la catena dei prestiti dovette allungarsi e il Trivelli essere presto additato come mal pagatore e, di conseguenza, evitato. La situazione precipitava, né presentava vie d'uscita. Tornare a Vasto o restare ad ogni costo a Roma erano le due uniche possibilità che gli si presentavano.
La prima, però, ammesso che il Trivelli non fosse ricercato per omicidio, non sarebbe stata soluzione dignitosa per un letterato ambizioso; la seconda, invece, era forse l'unica scappatoia da prendere in considerazione, anche a costo di dedicarsi a lavori umili, purché gli permettessero di sopravvivere.
È in questa prospettiva che ci si può spiegare quanto provvidenziale sia giunto l’impiego di copista nella bottega di Martorello e Martino Dominici in campo Marzio, anche se, per altri motivi, quel lavoro costituì in seguito il più consistente capo d’accusa dei misfatti antipapali di cui il Trivelli fu imputato.
Nella primavera del 1736, com’è noto, la Spagna intraprese a Roma reclutamenti forzati tra il popolo, facendo uso all’occorrenza anche di travestimenti e di allettevoli meretrici, le quali avevano il compito di attirare gli ignari cittadini e consegnarli alle autorità competenti, dopodiché gli involontari coscritti venivano imbarcati a Ripa Grande (19). La cosa non poteva durare a lungo, tant’è vero che il popolo, stanco dei soprusi, organizzava il 23 marzo un violento tumulto, durante il quale vennero liberati i prigionieri. E tutto ciò all’ombra del silenzio accondiscendente di Clemente XII. Gli Spagnoli dal canto loro, reagivano energicamente chiedendo al Papa la consegna dei capipopolo, pena la rottura dei rapporti diplomatici con la Santa Sede. A questo punto appariva chiaro che il prezzo richiesto al Papa era troppo alto perché Clemente non tornasse indietro: la pace con la Spagna da un lato, il malcontento del popolo dall'altro, non reggevano a confronto e il pontefice non ebbe dubbi. Ma contro la debolezza del governo pontificio si scatenò un gioco sotterraneo di proteste, Pasquino si risvegliò scagliando pungenti frecciate, i copisti insomma lavorano a pieno ritmo. Al coro di disapprovazioni espresse in versi il Trivelli dovette senza dubbio partecipare ampiamente col proprio lavoro e non solo con esso: egli, sua sponte, non ebbe indugi a far appello alla propria natural vena satirica e contribuire in prima persona alla lotta contro la decisione papale, nulla impedendolo, neppure le lodi già profuse a Clemente dal Campidoglio nell’ode del 1732. Sue vittime furono, oltre il Papa in persona, il cardinale Guadagni e il Corsini, nipote di Clemente XII.
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(Ritratto di Papa Clemente XII) |
La Santa Sede riconobbe nei numerosi e anonimi foglietti volanti diffusi in Roma un comportamento irriverente e una minaccia gravissima alla propria dignità, ordinando che fossero trovati i colpevoli. A occuparsene è il Governatore di Roma, che affida l’incarico al Bargello, in quel caso da identificare nel capitano Giuseppe Maria Scaiola da Monferrato. Questi, amico dei Dominici, presso cui il Trivelli lavorava, indaga e fa indagare nell'ambiente dei copisti, in modo che, di lì a qualche tempo, non fu difficile giungere al conte scrivano abruzzese.
Nella Relazione pubblicata dall'Ademollo può leggersi dettagliatamente la cronistoria della cattura e degli interrogatori subiti dal poeta, assieme al sacerdote Don Gio. Battista Jacoponi, altro accusato: lunghissime ore di stressanti domande e, infine, il processo, durante il quale il Trivelli non dovette riuscire brillante difensore di se stesso. Gli furono addebitati versi appunto contro i cardinali Guadagni e Corsini, una satira contro arruolamenti abusivi e, in più, un
voluminoso scartafaccio indirizzato al Re di Napoli per convincerlo a non far
pace con lo Stato pontificio.
Molte altre testimonianze furono addotte a suo carico e come tali registrate negli atti del processo: si richiama la sua buona educazione letteraria «a cui ha atteso nello spazio di molti anni sotto insigni maestri, sì nella città del Vasto, che in quella di Napoli, che ancora dall’aver dato alle stampe alcune composizioni in Roma et aver fatto nota in Roma fra gli Arcadi la sua capacità con un’ode in onore dell'esaltazione al trono del Regnante Pontefice come confessa» (20). Del resto lo Jacoponi asserì «avere il Trivelli tal facilità di comporre, che è capace di comporre e scrivere nello stesso tempo molti fogli senza farvi una cassatura e senza farci copiaccia» (21); dal canto suo il Dominici testimoniò sulle qualità poetiche del collaboratore, assicurando di averlo visto far versi con scioltezza e senza ripensamento alcuno. In conclusione, il conte vastese fu senza indugi riconosciuto « reo » e responsabile principale delle pasquinate e condannato alla decapitazione.
Inizia così per Errico Trivelli la lunga attesa del giorno dell’esecuzione, attesa straziante, che il poeta cercò di ingannare facendo — come si suol dire — buon viso a cattivo gioco. Durante le ore in cella più volte egli trovò lo spirito di stendere e condurre a termine un succoso e strambo testamento poetico, che resta a documento del suo mai sopito ingegno.
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(Il frontespizio del testamento di Enrico Trivelli - Archivio Storico Comunale "Casa Rossetti" - Vasto) |
Ancora il benemerito Ghezzi, in pagine documentatissime, ci dà modo di seguire passo passo i tormenti del condannato dando notizia
del fiero comportamento tenuto dal conte ventisettenne il giorno
dell'esecuzione e persino c’informa sulle fattezze dell’abito, volutamente
elegante, di «panno negro [ ... ]. Volle ancora le fibbie d’argento che portava alle
scarpe quando fu scarcerato [...] e si ripulì tutto» (22). Mise, inoltre, al collo
un fazzoletto di seta e in testa un tricorno con pennacchio bianco e rosso, i
colori della sua città. Dal Ghezzi, decisamente dalla parte delle autorità
pontificie, è deplorato poi quel suo chieder da scrivere poche ore prima di
morire, «nulla pensando alla maggiore importanza della sua anima», anche se
non può fare a meno di raccontare che sul patibolo, prima d’essere bendato e
legato, il Trivelli recitò il Credo: «si trattenne così in ginocchio un buon
mezzo quarto d’ora e parea non sapesse alzarsi in piedi, e salire nel palco, ma
inanimito dai Confortatori, e forte gridando Viva Gesù Viva Maria salì con prestezza
gli scalini del palco, e condotto al ceppo della mannaia, presto che fu a
cavallo al medesimo, prima di colearsi, domandò del Padre Santi Canale, che era
ivi vicino, e dicendogli che non si scordasse di lui, e che lo raccomandasse a
Dio, fece nuovamente atto di contrizione domandando ad alta voce perdono di
tutti li suoi peccati, e specialmente di molti errori di mente che aveva avuti
e ringraziando il Signore che l'aveva fatto nascere e morire nel grembo di
Santa Chiesa Cattolica, spontaneamente si colcò sotto la mannaia, e gli recise
subito la testa e questa mostrata al popolo che in incredibile quantità si era
adunato in detta piazza» (23).
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(Mastro Titta) |
Alle ore diciassette la sua testa era
esposta sul palco, mentre il popolo si mostrava impaziente d’incominciare le feste di Carnevale.
Infine il Ghezzi, concludendo il resoconto dell’esecuzione, entra in prima persona a commentare l’epilogo della drammatica vicenda: « Dio voglia però che una tale intrepidezza provenisse da una vera contrizione de’ suoi peccati e ferma speranza che aveva nella somma misericordia d’Iddio, e non fusse originata dall'eroismo che sera in mente prefisso. Certo che, se si riguardano la composizione e proteste da lui dettate in Confortaria, purtroppo a chi ponderatamente le considera, si manifesta il fino veleno, che in esse si cela, e si scorgono sentimenti non adatti ad uno che è prossimo a comparire al tremendo giudizio dell’infallibile e Sommo Giudice; se poi si esaminano gli atti posteriori dal medesimo fatti, dobbiamo sperare che pentito dei passati errori col mezzo di una così infame morte abbia fatto acquisto dell’eterna, ed immortale vita » (24).
Tra i manoscritti della Biblioteca Comunale « G. Rossetti » di Vasto si conservano alcuni autografi del poeta decapitato. Questi, come si apprende da notizia seriore, probabilmente del Marchesani, apposta nel voi. IV, c. 156 dei Documenti patrii, furono portati da Roma (ove giacevano nell'archivio della Confraternita di S. Giovanni Decollato) a Vasto da Giuseppe De Litiis, medico a Roma fino al 1805. Passati a Francesco Romani, medico e poeta della stessa città, furono lasciati in eredità da quest’ultimo alla suddetta biblioteca, ove furono allegati dal Marchesani ai documenti riguardanti la storia della città.
Il materiale relativo al Trivelli comprende l'ode recitata in Campidoglio (D.P., voi. II, cc. 261-265) (25), una Protesta (26) (D.P., vol. II, cc. 251-252) scritta il 22 febbraio 1737, in cui il poeta si proclama cristiano e innocente. Seguono un’ode supplica a Clemente XII (27) e alcuni inediti, differenti dalle composizioni poetiche precedenti per stile e intenzioni. Questi ultimi facevano, con tutta probabilità, parte del materiale incriminato che costò la vita al Trivelli. Si tratta di sette sonetti (D.P., vol. II, cc. 160- 64) e di un Testamento in versi (D.P., vol. II, cc. 150-164).
Tra i sonetti trascegliamo il V, che risale al periodo in cui l’autore era indiziato e ricercato: esso porta i segni dello stato d’animo del Trivelli, vittima di incubi notturni, della paura attanagliante di cadere in mano agli sbirri («tanta canaglia/di sbirri e spie per acquistar la taglia», dirà anche nel IV sonetto).
Inoltre, diamo il testo integrale del Testamento, e segno evidente della scanzonata e popolaresca (e non sempre corretta) vena poetica del conte di Vasto, il quale dai paludamenti arcadici delle odi ufficiali sapeva scendere al ritmo della poesia improvvisata, fresca e spontanea, efficace e sferzante. I componimenti ben s’inseriscono nel filone della vasta rimeria arcadica d'estrazione bernesca così diffusa nel Settecento, ma qui il gioco nasconde un dramma autobiografico autentico che il divertissement non riesce del tutto ad eclissare.
Nella trascrizione ci siamo attenuti agli autografi intervenendo qua e là per riportare il testo alla leggibilità, sia perché talvolta priva di punteggiatura, sia perché il suo uso alterava il senso corrente. Si sono poi eliminate le maiuscole superflue (Notar, Scritto, Anima, ecc.), conservando quelle in principio di verso e le opportune; ugualmente sono caduti taluni accenti soverchi (es. fù, sò).
Qualche strofa del Testamento fu pubblicata dall’Anelli (vv. 1-8; 25-40; 137-148; 181-184) in una sua storia (28) (poco più che una guida turistica) della città di Vasto, ma non sempre correttamente. Talvolta, anzi, l'illegibilità di una parola induceva l'Anelli ad effettuare addirittura arbitrarie manipolazioni di versi. Se ne darà conto in nota.
[Gli sbirri]
In sogno questa notte mi pareva
d’andar in ciel con il corpo umano e
Pietro mi pigliasse per la mano
ma poi m’accorsi, che tra sé rideva.
Vieni meco poeta mi diceva; 5
vado, e mi pone a canto a S. Sebastiano
che il medaglion dal collo gli pendeva
per che era stato Barigel romano.
Io, che gli sbirri ho sempre odiato a morte
al prince degli Apostoli mi voltai 10
con dir se appresso gli venia la corte.
Mi risponde sì. Tosto — gridai —
serra per carità Pietro le porte,
e dicendo così mi risvegliai.
Testamento
Poiché il mio caso è disperato affatto Benché reo non sono io d'alcun delitto
Or voglio far un testamento esatto
Senza notar, per non pagar lo scritto:
L’anima in primis raccomando a Dio 5
E lasso il corpo alla gran madre antica,
A chi pormi nell’urna avrà fatica
Lasso le scarpe ed il cappello mio.
Dopo lasso al dotto mio barbiere
Una grand’antichità fatta di stucco 10
Che servir si potrà per candegliere
Un piede del colosso di Nabucco.
Due materassi ancor ben trapuntati
Che dentro vi è di buona lana invece
Tutte le barbe, che recider fece 15
Il macedon invitto a suoi soldati.
Gli lascio berrettini trentasei
Ma vedrà che bella tela è questa
S’è quella instessa che portava in testa
Attila detto (il) flagellum Dei. 20
Item lasso alli parenti mei.
Però quelli più prossimi e vicini,
In vece di testoni e di zecchini,
Le corna del vitello degl'Ebrei.
Item lascio il pugnale al mio tutore, 25
Che lo difenderà nell'ore fosche,
E con questo solea ammazzar le mosche Cesare Domiziano imperatore.
Gli lascio un ferraiuol di panno nero,
Che mandato mi fu dall’Inghilterra; 30
Che se la mente mia forse non era
Credo che fosse di Martin Lutero.
Due braciole di più cotte e salate
Gli do con sette libbre di lombetto
E gli so dir che son di quel porchetto 35
Che andava appresso a S. Antonio Abate.
Gli lascio di prosciutti piena l’arca
Che dentro il greco furon cotti alesso
E gli giuro che son de' porci stessi
Che guardò Sisto quinto nella Marca. 40
Altra cosa avrà più vaga e linda
Qual prego sempre che la porti in dono
Mentre li attesto che è quell'elmo stesso
Col qual Tancredi battezzò Clorinda.
Lascio alla serva mia di gioie ignuda 45
Un prezioso e gratissimo diamante
Che incostrato trovai sopra il turbante
Del gran visir che fu strozzato a Buda.
Gli lascio un busto d’ossa di balena
Quella che voimitò vivo in persona 50
Quell'amico del ciel profeta Giona
A Ninive colà sopra l’arena.
Lascio al mio servitor nomato Andrea
Uno spiedo che è tutto arrugginito
Coll'autentico poi sopra di Tito 55
Che il figlio v’arrostì la madre ebrea.
Per quando va a spasso con leggiadria
Lo so che gli sarà d’utile e grato
Gli lascio il bastoncel che fu tagliato
Nella selva che fe’ Pietro messia. 60
Lascio al mio camerier nomato Marco
Il funesto di porfido mortaro Dove pestato fu senza riguaro
L'eccellente filosofo Anasarco.
Una coltella poderosa e invitta 65
Colla quale farà opere eterne
Se con questa la vedova Giuditta
Sotto Betulia v'ammazzò Oloferne.
Acciò che possa un dì pranzar contento
E possa far a molti amici un pasto 70
Gli lascio per frittura et antipasto
Il fegato del toro d'Agrigento.
E acciò che li risposi la mattina
Io gli voglio lasciare un letticello
Che me lo regalò quel poverello 75
Che uscì dalla [...] piscina.
Il bucefalo gli lascio d’Alessandro
E addosso portar non gli rincresce
L’armatura gli do dossa di pesce
Che servì per Leonilda a Colleandro. 80
Gli dono un sacco, che vai più d’un soldo,
Quale in Epiro me lo diede Pirro
Con dir qui dentro ci legò lo sbirro
Quel villan astutissimo Bertoldo.
Di lacrime gli lascio un caraffino 85
Quali versate fur da Solimano
Quando esangue mirò steso sul piano
Il vaghissimo a lui caro Lesbino.
Poi gli vo’ regalar certe monete
E credo sian cento mila scudi 90
Ma nello spaccio converrà che sudi
Mentre che tutti son grassi del prete.
Altra cosa gli lascio eccelsa e magna
Ma la tenghi di conto, e molto caro,
Che è la coda del celebre somaro 95
Che a Balamme parlò su la montagna.
Gli lascio un chiodo ancor di sangue intriso, Chiodo atrocissimo e crudele,
Con il quale dall’intrepida
Sisara il capitan fu un giorno ucciso. 100
Gli lascio un par di tinche fresche e crude
Quali pescate fur da Paifasse
Senz'ami, senza reti e senza nasse
Dentro delle Metoide paludi.
Se di portarlo via non avrà noia 105
Gli lascio un scorzo e mezzo di carbone
Che parte è dell’incendio di Nerone.
L’altro lo conservai quand’arse Troia.
Ad una amica mia detta Gertrude
Gli lascio fichi secchi un par di serte 110
Quali furon colti da più mani esperte
Nell’albor proprio ove appiccossi Giuda.
Un canestro gli do colmo di mele
Con il quale Bacucco e suoi garzoni
Portava il pane e si saziò Daniele 115
Quando stava nel lago de’ leoni.
Gli lascio quel medesimo cestino
Che la figlia trovò di faraone
Trasportato dal mar sopra il sabbione
Dove stava Mosé nudo bambino. 120
Gli lascio ancor, ma non la presti a niuno,
Una forcina [per] la sua posata
Per mangiar maccheroni et insalata
Ed è il tridente del gran dio Nettuno.
Lascio al cuoco un famoso parruccone 125
Di tessuti capelli in belle guise
E son quelli che Dalila recise
Al nerboruto e forte ebreo Sansone.
Lascio al padre curato di Sant’Ivo
La tabacchiera mia d'acqua di mare, 130
Gli lascio ancor per adornar l’altare
Un par di candeglie d’argento vivo.
Per non aver da un mio fratel richiamo
Gli lascio un nobilissimo mantello
E gli posso attestar che proprio è quello 135Che addosso avea pria che peccasse Adamo.
Io lascio d’oro ad una mia cognata
Un crocifisso che sicura stia
Che è quello [a cui] soleva orar Maria
Pria che fosse dall'angiolo annunziata. 140
Item lascio ad un'amica un gallo
Ma non lo mangi e l’abbia in devozione
Qual di Cristo cantò nella passione
Dopo che Pietro ebbe commess’il fallo.
Lascio di San Giovanni al parrocchiano 145
cosa che diemmi di Porsenna il cuoco,
Che arrostita trovò cotta sul fuoco
Ed è di Muzzio Scevola la mano.
Lascio al padre prior della zitella,
Di questo santo e venerando Apicio 150
Del gran Giuliano Apostata il cilicio,
Un sasso della torre di Babelle
Voglio lasciare a Don Bartolommeo,
Quel degno prete della scala santa,
la testa, e l’abbia in devozione tanta, 155
Che fu recisa al general Pompeo.
Lascio una pizza in mano della corte
Che fu impostata con quel poco miele
Con il quale il tiranno empio e crudele
Saulle condannò Gionata a morte. 160
Lascio a mio zio, qual d’Agostino è frate,
L'anello d'oro di liquore pieno
Ed è quel potentissimo veleno
Che un dì tolse la vita a Mitridate.
Item d'argento quella tazza istessa 165
Qual da Giuseppe ebreo di propria mano
Dentro del sacco a Begnamin fu messa
Mentre in Egitto gli vendeva il grano.
Item una metà di quel cervello
Che non so se di lepre o ver di gatto 170
Qual fu dato a mangiar dentro del piatto
In Napoli al famoso Masaniello.
Al capitolo mio di San Giovanni
Per ricompensa del ricetto dato
Tutto il tempo che fu qui ritirato 175
Gli lascio il tesor del prete Janni.
Lascio infine al degnissimo Cerrotti
Quale di vero cuor venero et amo
Tutto il bene che Dio diede ad Abramo
per sé, pe' suoi figliuoli e suoi quasi nipoti. 180
E lascio esecutor testamentario,
Acciò pronto eseguir prenda la cura
E ritrovar il corpo in grembo alla natura,
Quel che fu l’inventor del calendario.
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v. 6 lasso [lascio ANELLI
v. 7 A chi [E a chi ANELLI
v. 8 Lasso [Lascio ANELLI
v. 31 Che se [E se ANELLI
v. 33 di più [dippiù ANELLI
v. 36 S. Antonio [Sant'Antonio ANELLI
v. 39 de' [dei ANELLI
v. 139 a cui è correzione accolta dall'Anelli, ma questa volta necessaria. il ms. aveva al quale, lezione che rendeva il verso dodecasillabo.
v. 140 angiolo [Angelo ANELLI
v. 141 Item lascio [Elascio pure ANELLI
v. 143 Qual [Quel ANELLI
v. 144 commess'il [Commesso il ANELLI
vv. 182-183 Acciò... / ... natura [Perché di ritrovar abbia la cura / il corpo mio in grembo alla natura ANELLI
v. 184 Quel [Quei ANELLI
__________________
Note:
(1) Carteggio di Pietro e Alessandro Verri (dal 1774 al 1775), vol. VII a cura di E. CHEPPÌ e A. GIULINI, Milano, Cogliati, 1931, p. 72.
(2) Si potrebbero con tutta probabilità fare i nomi dell’abate Rivarola, giustiziato il 4 agosto 1708, nonché dell'abate Volpini, messo a morte il 3 febbraio 1720. L uccisione del Rivarola destò però più scalpore sia. per la singolarità della figura, sia per essere stato trascinato al patibolo già quasi morto. Cfr. A. Ademollo, Le giustizie a Roma, Roma, Forzani e C., 1882, pp. 125-133.
(3) P. E. Ghezzi, Relazione del processo e morte del conte Enrico Trivelli, in A. Ademollo, op. cit., pp. 133-145. (4) Le annotazioni di Mastro Titta carnefice romano, a cura di A. ADEMOLLO, Città di Castello, Lapi, 1886. La citazione è però effettuata dalla rist. anast., Bologna, Ferni, 1966 , pp. 88-89.
(5) M. PERICCIOLI, Vite amorose nella storia e nella leggenda, Roma, Casa del Libro, 1934, pp. 7-18.
(6) L. MARCHESANI, Storia di Vasto, città in Abruzzo citeriore, Napoli, Osservatore medico, 1838. Per questo vol., praticamente irreperibile (manca persino nella Biblioteca Com. di Vasto), si può usufruire ora d'una ristampa voluta dal Comune di Vasto: Pescara, Arte della stampa, 1966. Quest’ultima è corredata da una pref. di M. SACCHETTI e da una biografia del Marchesani di G. TOMMASI, la quale riproduce alcune parti di un opuscolo edito a Napoli nel 1879. La mancanza di indici d’ogni specie, comunque, e lo stile ridondante del Marchesani rendono anche questa ristampa di difficile consultazione e lettura. In ogni modo da essa citiamo.
(7) Cfr. A. ADEMOLLO, Le giustizie a Roma, cit., p. 133.
(8) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 132.
(9) L. Marchesani, op. cit., p. 332.
(10) La precisazione si deve a L. ANELLI, Histonium ed il Vasto attraverso i secoli, Vasto, Guzzetti, 1929, p. 48.
(11) Cfr. L. MARCHESANI op. cit., p. 332.
(12) Canzone del Conte Trivelli per l'esaltazione di Nò. Papa Clemente XII dedicata al Cardinale Alvaro Cienfuegos, Firenze, 1732.
(13) Vedila ora riprodotta, in L. Benedetti Tre istoniesi a Roma, Roma, Quaderni dell’Alma Roma, 1962, pp. 29-34.
(14) La notizia è confermata anche dall’ode del 1732 recitata in Campidoglio: « Colà fra le dolcissime sirene / Sol tra larmi e i guerrier raccolsi il canto / E IDASIO udimmi, IDASIO che sostiene / D’esse l’onore con Nivalgo, e vanto / N'ebber le mie Camene ». In L. BENEDETTI, op. cit., p. 29.
(15) AA. VV., La Giacinteide. Alla nobile sposa D. Giacinta Leone, Napoli, 1779.
(16) D. MACIANO, Notizie patrie (1700-1720), ms. autografo nella Biblioteca Com. di Vasto. Il frontespizio porta il seguente titolo: Libretto di molte belle cosette e molte cose a leggerle principato nell'anno 1700 fatto da me C.co Diego Maciano del Vasto, per mia felice memoria, senza fraudità, nè passione alcuna di tutto ciò, che si parla in questo volume.
(17) L. BENEDETTI, op. cit., p. 35. Altri due studiosi locali si sono occupati di Trivelli con interventi generici: E. FERRARA, in "Histonium", (Vasto), a. II, n. 1, 15 settembre 1948; V. D'ANELLI, Histonium ed Il Vasto, Arte della stampa, 1977, pp. 70-72.
(18) L. BENEDETTI, op. cit., p. 36.
(19) Cfr. L. VAN PASTOR, Storia dei Papi, vol. XV, Roma, Desclée e C. editori pontifici, 1962, p. 695.
(20) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 138.
(21) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 138.
(22) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 142-143.
(23) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 144.
(24) A. ADEMOLLO, op. cit., p. 145.
(25) L'ode non è autografa. Si legge infatti alla c. 260 dei D.P., vol. II « La seguente Ode è stata ricopiata in Vasto nel 1867mpresso una raccolta ms. di Poesie, che si dicevano composte dal Medico D. Giuseppe de Litiis. La Raccolta in volumetto in 8° di carte 64 si possedeva da D. Giuseppe Celano, ma presentemente è presso D. Filoteo Palmieri [...] ».
(26) Pubblicata da L. BENEDETTI, op. cit., p. 53-54.
(27) L'ode-supplica, vano appello alla clemenza di Clemente (ironia del nome!), fu pubblicata da A. ADEMOLLO, op. cit., pp. 94-99. La riproduce anche L. BENEDETTI, op. cit., pp. 54-63, con più precisa trascrizione.
(28) L. ANELLI, op. cit., pp. 48-49.